Una donna qualunque

Ritratto Alda Merini

 

 

 

 

 

 

 

La parabola esistenziale di una donna che è riuscita a riapparire alla vita
dopo dieci anni di inferno manicomiale

Uno spettacolo ispirato alla vita e alle poesie di Alda Merini

di e con Sergio Cadeddu e Antonio Sida
collaborazione alla regia di Juri Piroddi

“Uscire dal manicomio è già di per sé un miracolo”, così si è espressa Alda Merini in una intervista. Ma forse il miracolo è stato reso possibile perché i dieci anni trascorsi in manicomio non sono riusciti a spegnere il fuoco della poesia che già ardeva in lei prima del ricovero. Prevalentemente incentrato sulla produzione poetica immediatamente successiva alla riconquistata libertà, in particolare alle raccolte Destinati a morire, Poesie vecchie e nuove, La terra santa, Fogli bianchi, Superba è la notte, Ballate non pagate e per la prosa L’altra verità, Diario di una diversa e Il ladro Giuseppe, lo spettacolo si sviluppa lungo una linea di confine tra teatro e poesia. All’interno di una scenografia essenziale due attori, senza pretendere di essere personaggi teatrali ben definiti (non sono matti da manicomio), cambiano ripetutamente identità, genere, prospettiva. Si fanno veicoli dell’intensa e tormentata vicenda esistenziale e poetica di una donna, intorno a tre temi fondamentali: follia, amore e senso del mistero.
“La poesia – ci ricorda ancora Alda Merini – è irta, procede in modo verticale”.
Abbiamo fatto nostre queste parole e volentieri ve le porgiamo.
                                                                                                                                   S. Cadeddu e A. Sida

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Addio a Alda Merini, un fenomeno in versi
di Paolo Febbraro

Ci sono poeti che hanno una mira formidabile, con pochi tentativi giungono al bersaglio. E altri invece che hanno dalla loro una cartucciera ricchissima di colpi, da sparare in molte direzioni. Alda Merini, nata a Milano nel marzo del 1931, è stata probabilmente fra gli autori del secondo tipo. A tal punto che proprio la parola «autore» sembra inadeguata a descriverla. Poeta, più che autrice di poesie, gratificata da un successo di pubblico inusuale in Italia cui non fa riscontro il giudizio della maggioranza dei critici, Merini ha avuto nel suo destino la soddisfazione di sfondare quel muro di dignitoso silenzio che circonda chi scrive versi. La sua poesia venne scoperta, lei giovanissima, alla fine degli anni '40 da Giacinto Spagnoletti, che inserì due suoi componimenti nell'antologia Poesia italiana contemporanea (1909-1949), edita da Guanda nel 1950. Fu il preludio alla prima raccolta autonoma, La presenza di Orfeo, del 1953, segnata dai riflessi della grande storia d'amore che aveva legato la ragazza Alda al giovane scrittore Giorgio Manganelli.
Nei libri successivi, Paura di Dio, Nozze romane e Tu sei Pietro, stampati da editori milanesi attenti e raffinati come Schwarz e Scheiwiller, si sarebbero poi intrecciati erotismo e misticismo, anche se - in realtà - quel che accade nei suoi versi è che l'amore e lo slancio religioso danno espressione a un Io che rifiuta di determinarsi in un solo individuo. La figura maschile (Dio, padre, uomo amato) è il totem ombroso o lucente al quale Alda Merini tende con un'energia incontenibile e terrorizzata, che evoca le presenze numinose della duplice tradizione occidentale, greco-latina e biblica. Questa Saffo cristianizzata, penitenziale, ritrae se stessa in un formulario, in un rituale «gergo d'amore» che si arricchisce per approfondimenti non successivi ma in qualche modo fra loro contemporanei, compresenti nella stessa punta di penna: non c'è memoria (come nella espressione maschile della poesia), ma il verbo presente di un'esperienza che séguita a mettere in gioco il corpo, cercare anche il diapason della metafora, capace di accecare l'ansia e la sconfitta del tempo.
Fra il 1965 e il 1972, e poi a più riprese fino al 1979, Alda Merini venne ricoverata in manicomio, l'esperienza centrale della vita, a metà fra il definitivo sconvolgimento e la possibilità di trovare un ordine. Dal 1979 riprese la scrittura in versi, e diede forma a un centinaio di componimenti da cui l'amica Maria Corti trasse le quaranta poesie che sarebbero andate a comporre La Terra Santa (1984), con cui la poetessa si riproponeva a un pubblico ormai ignaro o distratto. Perché solo quaranta poesie e non il centinaio di liriche presenti nei dattiloscritti?, si chiederà più tardi la stessa Maria Corti. E la sua risposta rimanda a quanto caratterizza Alda Merini nel rapporto necessario e non esattamente autoriale con la creazione poetica: «Va precisato che per anni Alda Merini si era abituata, su consiglio dei medici, a scrivere di getto, spesso a scopo liberatorio; nacquero così, a fianco ai testi poetici di grande valore, altri di carattere comunicativo. Di qui l'utilità di un lavoro di selezione che isoli le perle e i brillanti e dia loro la possibilità di splendere». Anche Giovanni Raboni, nel 1988, scommise sulla rinascita della poetessa quando pubblicò da Crocetti la scelta dei versi intitolata Testamento. Da lì, il crescente successo, l'attenzione dei mezzi di comunicazione, lo sviluppo della scrittura in prosa, che negli anni sarebbe culminata in libri come L'altra verità. Diario di una diversa (1986), Delirio amoroso (1989) e La pazza della porta accanto (1995). La produzione letteraria di Alda Merini si fece debordante, l'affetto di molti la induceva a prodursi in versi o aforismi lasciandosi andare a quella libertà da ogni controllo che si sposava al suo temperamento. Attorno ai libri maggiori, puntualmente organizzati dai sodali più competenti, come ancora e in diverse occasioni la stessa Maria Corti, si affollarono le plaquettes, le piccole edizioni d'arte, come quelle del Pulcinoelefante di Alberto Casiraghy. Passaggi importanti sono rappresentati dai volumi Vuoto d'amore (1991), Ballate non pagate (1995), Superba è la notte (2000) e Clinica dell'abbandono (2004), tutti pubblicati presso Einaudi. Intanto si precisava e si espandeva la scrittura apertamente mistica, in libri che tornano al verso o lo abbandonano, come Magnificat: un incontro con Maria (2002) o Francesco, canto di una creatura (2007).
Se alla connaturata nudità dei poeti, affiancata ora dalla nudità della morte, è lecito accostarsi con attitudine critica, bisognerà allora domandarsi com'è stato possibile che una poetessa nata editorialmente nelle poche raffinate copie di alcuni editori degli anni '50 sia poi diventata un fenomeno mid-cult. E si può rispondere che, in un'epoca in cui i poeti sono vistosamente slittati verso la prosaicità e la cronaca, o hanno dato fondo a una modernità facilmente sacrilega più che davvero laica, Alda Merini è stata percepita come una forza arcaica e dirompente, come un oracolo colmo di energia, come una fonte di verità irriflessa. Certo, al contrario di quanto potrebbe apparire, non è soltanto un'autrice inventata dai suoi critici-editori, perché davvero nei suoi libri brillano diversi diamanti: più singole strofe o distici che interi componimenti.
Il meglio di sé Alda Merini l'ha dato quando ha saputo fare lampeggiare le sue metafore con l'intelligenza sentimentale che risuona in quella misteriosa parte della nostra mente che chiamiamo corpo. Grembo, ventre, seno, seme, ramo, fiore: questo è l'idioletto di Alda Merini, che ha portato molti a parlare di ustione, urgenza, fisicità mistica. Eppure il nome di questa poetessa resterà legato a quello di un fenomeno, una cartina di tornasole di ciò che il pubblico della poesia - per usare la formula fortunata e ironica di una celebre antologia - riconosce come proprio bisogno.

su il manifesto del 03/11/2009
 

* * * *

Laggiù dove morivano i dannati
nell’inferno decadente e folle
nel manicomio infinito
dove le membra intorpidite
si avvoltolavano nei lini
come in un sudario semita
laggiù dove le onde del trapasso
ti lambivano i piedi nudi
usciti di sotto le lenzuola
e le fascette torride
ti solcavano i polsi e anche le mani,
e odoravi di feci,
laggiù nel manicomio
facile era traslare
toccare il paradiso
lo facevi con la mente affocata
con le mani molli di sudore
col pene alzato per aria
come una sconcezza per Dio,
laggiù nel manicomio
dove le urla venivano attutite
da sanguinari cuscini
laggiù tu vedevi Iddio,
non so, tra le traslucide idee
della tua grande follia
Iddio ti compariva
e il tuo corpo andava in briciole
delle briciole bionde e odorose
che scendevano a devastare
sciami di rondini improvvise.

*  *  *

Ho conosciuto Gerico,
ho avuto anch’io la mia Palestina,
le mura del manicomio
erano le mura di Gerico
e una pozza di acqua infettata
ci ha battezzati tutti.
Lì dentro eravamo ebrei
e i Farisei erano in alto
e c’era anche il Messia
confuso dentro la folla:
un pazzo che urlava al Cielo
tutto il suo amore in Dio.
Noi tutti, branco di asceti
eravamo come gli uccelli
e ogni tanto una rete
oscura ci imprigionava
ma andavamo verso la messe,
la messe di nostro Signore
e Cristo il Salvatore.
Fummo lavati e sepolti,
odoravamo di incenso.
E dopo, quando amavamo
Ci facevano gli elettrochoc
perché, dicevano, un pazzo
non può amare nessuno.
Ma un giorno da dentro l’avello
anch’io mi sono ridestata
e anch’io come Gesù
ho avuto la mia resurrezione,
ma non sono salita ai cieli
sono discesa all’inferno
da dove riguardo stupita
le mura di Gerico antica.