Dyònysos (2006)

Diònysos

 

 

 

 

 

 

 

 

 

In girum imus nocte et consumimur igni

«Niente esprime quel presente senza uscita e senza requie meglio dell’antica frase che torna integralmente su se stessa [palindromo], essendo costruita lettera per lettera come un labirinto da cui non si può uscire, sicché in essa si accordano perfettamente la forma e il contenuto della perdizione: In girum imus nocte et consumimur igni. Giriamo in tondo la notte e siamo divorati dal fuoco.»

Guy Debord

testi di B. Pascal, P.P.Pasolini, Saffo, frammenti orfici,
frammenti apocrifi del Nuovo Testamento

regia e ricerca drammaturgica: Juri Piroddi

con: Carolina Angius, Electa Behrens, Silvia Cattoi
Juri Piroddi, Yamina Piroddi, Silvano Vargiu, Jörn Riegels Wimpel

sculture di scena: Gianni Viglino
foto di scena: Silvia Cattoi, Alberto Lamperti e Pierre Claverie

traduzioni dal greco: Maria Assunta Deiana

«(...) le spectacle "Dionysos", qui par le biais d'une mythologie antique méditeranéenne revisitée, donnait à voir et à entendre un conte universel. Remarquablement choréographiée, cette pièce originale a compleétament séduit le public qui se souviendra longtemps de la force visuelle et sonore de cette proposition théatrale». Corse-Matin 05-11-2006

«Ogni comparsa dionisiaca è un evento glorioso e una voragine che squarcia l’esistenza. […] Dioniso: gioia pena, estasi spasimo, benevolenza crudeltà, cacciatore preda, toro agnello, maschio femmina, desiderio distacco, gioco violenza, senza prima né dopo». 

Elémire Zolla

Diónysos è uno spettacolo che si struttura attorno ad alcuni riconoscibili elementi performativi di tradizione: canti, sonorità, azioni efficaci, mascheras bruttas.
E’ uno spettacolo che vuole porre domande sulla nostra identità. Dioniso – che nel pantheon greco incarna la figura dell’Altro – ci è indispensabile per indagare noi stessi. L’Identico non si può concepire né si può definire se non in rapporto con l’Altro, con la molteplicità degli altri. Se l’Identico rimane chiuso in sé, non è possibile il pensiero (e bisogna aggiungere: nemmeno la civiltà). Situando Dioniso al centro del dispositivo sociale, in pieno teatro, i Greci ci danno una grande lezione. Ci invitano a dare lo spazio conveniente e indispensabile, nell’idea di civiltà, a un atteggiamento che ha valore non soltanto politico e morale, ma anche propriamente intellettuale: l’apertura e il confronto con l’Altro da sé per la messa a punto di una identità dinamica (in opposizione alle identità sclerotiche dell’attuale fase caratterizzata da supposti scontri di civiltà).

«En fait, avec Diónysos, la vie apparaît comme sagesse, tout en restant la vie frémissante : là est le secret. En Grèce un dieu naît d’un regard exaltant sur la vie, sur un fragment de vie, que l’on veut arrêter. Et cela est déjà connaissance. (…) En termes mesurés, Diónysos est le dieu de la contradiction, de toutes les contradictions – comme l’attestent les mythes et les cultes le concernant – ou mieux de tout ce qui, ce manifestant par des mots, s’exprime en termes contradictoires. (…) Diónysos est un dieu qui meurt. En le créant l’homme s’est laissé entraîné à s’exprimer soi-même, entièrement, et quelque chose encore au- delà de soi. Diónysos n’est pas un homme : il est à la fois un animal et un dieu, manifestant ainsi les points terminaux des oppositions que l’homme porte en soi. C’est précisément là que réside l’origine obscure de la sagesse.»

G. Colli

Attraverso lo spettacolo Diónysos abbiamo voluto indagare coi mezzi del teatro quali nascoste potenzialità si celano dietro i nomi di alcune maschere e costumi della tradizione sarda: maimone, mamuthone, mammugone, mammujone, Iaccu, puzzone, Giolzi ecc. (oggi troppo spesso abusati e/o ridotti a forme vuote). Termini che rapidamente deviano la nostra attenzione sulle molteplici manifestazioni del carnevale barbaricino. Un carnevale che si contraddistingue per uno sprofondamento al prima di ogni tempo: il volto dell’uomo viene deformato o occultato; i corpi scompaiono sotto travestimenti sproporzionati; le cose come gli spazi del vivere comune subiscono una violenta trasformazione che li rende irriconoscibili; i gesti si caricano di valenze magiche, rituali, oscene; l’oscurità pare prendere il sopravvento sulla luce; arcaismi ritrovano strane attualità; le voci si deformano, le parole si contorcono in grida; aleggia da ogni parte una frenesia innaturale; l’inorganico, la maschera, l’oggetto privo di vita, l’automa, l’animale esaltato e vittimizzato acquistano un nuovo potere. Una lettura non superficiale di queste manifestazioni popolari ci fa scoprire in esse le più profonde radici dell’antica cultura mediterranea. Per abbozzare un tentativo di comprensione di questi fenomeni stratificati e complessi (dove paganesimo e cristianità si attraversano in un caleidoscopio di rimandi incrociati) dobbiamo ricorrere al mito di Dioniso che, sia detto en passant, è anche il mito che racconta la nascita del teatro. Se analizziamo il mito di origine orfica della morte di Dioniso, scopriamo che il dio ancora fanciullo viene colto di sorpresa dai Titani figli di Gea («la terra») che lo sbranano mentre è intento a giocare. I giocattoli di Dioniso hanno tutti a che fare con le arti del teatro, due in particolare: il vello, che allude alla maschera (la pelle del capro è il primo mascheramento degli attori greci), e i fantocci pieghevoli (ossia le marionette). Un altro elemento che arricchisce il quadro della situazione teatrale è che gli stessi Titani hanno il volto dipinto di bianco. In sostanza sia la vittima che i carnefici stanno giocando al teatro.
Il cuore di Dioniso Zagreo, sottratto da Atena, viene mangiato da Zeus, che incorpora così le qualità che gli consentono di annientare i Titani, dalle cui ceneri sarebbero poi nati gli uomini. Per questo motivo l’anima degli uomini sarebbe, sempre secondo la concezione orfica, tenuta prigioniera nella tomba del malvagio corpo titanico.
Il travestimento più frequente nei carnevali tradizionali della Sardegna (si pensi a Ovodda, Orgosolo, Ottana, Fonni, Ula Tirso ecc.) è l’uso di pelli caprine o ovine. L’uomo ricoperto di pelo in generale, con corna di capro, di cervo, di muflone o di bue (nel racconto tragico di Penteo, Euripide rievoca appunto Dioniso in forma taurina), affonda le proprie origini nel culto dionisiaco. Dioniso (figlio di Zeus e della mortale Semele) sarebbe stato affidato ad Ermes dal padre per eludere la gelosia di Hera proprio nelle sembianze di un capretto e condannato ad un eterno vagare. Questa è la ragione per cui satiri, sileni e pani (che accompagnavano il dio errante nei suoi continui spostamenti) ebbero sempre a conservare tratti ferini, parti terminali di zampe, corna e orecchie. Le Menadi (cioè le Donne folli), seguaci di Dioniso, spesso esaltate dal vino, eccitate dalla danza sfrenata e scomposta e da una musica rumorosa (la musica e il ballo: ecco altri due elementi che compongono il fare teatro) si sentivano invase dal nume (trance-possessione). Brandendo fiaccole e tirsi andavano allora per monti e foreste, fino a che non raggiungevano quell’animale (capro, capriolo, vitello o toro) in cui, per loro, il dio pagano si incarnava. Una volta raggiunta, la bestia veniva fatta a brani: le sue carni sanguinanti costituivano il pasto comunitario (omofagia). Con il sangue e per mezzo di esso (come similmente ancora accade nella Santerìa e nella Regla de Palo cubane, nel Candomblé brasiliano e nel Voudou haitiano), veniva incorporata l’essenza divina, suggellando l’unione col nume. Il corteo dionisiaco, per essere più simile al dio e più estraneo alla natura umana, si trasfigurava anche nel costume e nel portamento: ornava il capo di corna, si impiastrava di fango il volto, indossava pelli di animali. I travestimenti zoomorfi di Ovodda, avendo mantenuto molto dei rituali sopra citati, testimoniano la sopravvivenza di taluni elementi arcaici nel mondo contemporaneo. È più che possibile, quindi, che l’uso del travestimento ferino nei carnevali della Sardegna centrale sia il residuo di antiche pratiche rituali nel corso delle quali il fedele usava il vello della vittima offerta in sacrificio (in genere un capro) per avvolgere se medesimo alla santità di essa. Gli effetti del sacrificio a Dioniso (per propiziare la fertilità: il dio era infatti l’energia stessa che anima il mondo vegetale) venivano in tal modo mantenuti e al tempo stesso rievocati dall’indossare le spoglie dell’animale.


Stralci del testo utilizzato in Diónysos.

arianna:
Ecco che di nuovo amore mi dà tormento.
Amore che scioglie le membra
Amore dolce e amaro
Fiera sottile e invincibile.

Tramontate sono le Pleiadi
È mezzanotte e l’ora passa
E io sono qui, sola
Scuote amore il mio cuore
Come veto sui monti si abbatte su quercia
Voglia di vivere non ho più
Voglia di morire mi prende
E di vedere i loti freschi di rugiada
Sulla riviera di Acheronte.

Saffo


uomo:
- Dimmi straniero, sei un buon compagno?
straniero:
- Dimmi tu: come sono i tuoi amici?
Tu dici che sono come bambini che stanno in un campo di qualcun altro. Quando i proprietari si avvicinano e urlano “Via dal nostro campo!” - saranno nudi davanti a loro e se ne andranno. E dico io, perché siete venuti nel campo? Per vedere un filo d’erba tremare nel vento? Per osservare un uomo vestito di stoffa morbida? Le vostre persone cosiddette importanti si vestono di stoffa morbida però non vedono. Esistono uomini che fanno tanti viaggi e tuttavia non arrivano da nessuna parte. Quando la sera viene, non trovano una città, o un villaggio, nemmeno delle tracce di uomo, né potere, né un angelo, invano hanno camminato!

Apocrifo del Nuovo Testamento


sileno:
Sradica tutti i coperchi agli orci concavi.
Snida sino alla feccia il vino rosso.
Oggi nessuno fra noi potrà essere astemio.
Gonfiati di vino – già l’astro che segna l’estate dal giro celeste ritorna. Tutto è arso di sete e l’aria fùmica per la calura. Acuto fra le foglie degli alberi la dolce cicala di sotto le ali fitto vibra il suo canto quando il sole a picco sgretola la terra. Solo il cardo è in fiore: le femmine hanno avido il sesso, i maschi poco vigore, ora che Sirio il capo disseca e le ginocchia. Senza piacere quale vita di uomo, quale umana potenza è desiderabile ancora? Senza godimento nemmeno l’esistenza di un dio ha più senso. Beviamo, allora. Il giorno è lungo un dito. Prendi le coppe grandi, o ragazzo, quelle a colori variopinti – perché il figlio di Zeus e di Semele diede agli uomini il vino dell’oblio. Versa due parti d’acqua e una di vino! Colma le tazze sino all’orlo e l’una segua subito l’altra. Beviamo!

Archiloco e altri


uomo:
- Tutto è santo, tutto è santo. Non c’è niente di naturale nella natura, straniero, tienilo bene in mente. Quando la natura ti sembrerà naturale tutto sarà finito e comincerà qualcos’altro. Addio cielo, addio mare. Che bel cielo, vicino, felice. Dì, ti sembra che un pezzetto solo non sia innaturale e non sia posseduto da un Dio? Mh?
donna:
- Guardati alle spalle, che cosa vedi, eh? Forse qualcosa di naturale? No, è un’apparizione quella che tu vedi alle tue spalle, con le nuvole che si specchiano nell’acqua ferma e pesante delle tre del pomeriggio. Guarda laggiù quella striscia nera sul mare lucido e rosa come l’olio, eh, quelle ombre di alberi e quei canneti, eh, in ogni punto in cui i tuoi occhi guardano è nascosto un Dio e se per caso non c’è ha lasciato lì i segni della sua presenza sacra: o silenzio, o odore di erba, o fresco di acque dolci.
uomo:
- Oh sì, tutto è santo. Ma la santità è insieme una maledizione: gli Dei che amano al tempo stesso odiano.

Pier Paolo Pasolini
 

filonzana:
Io non so chi mi ha messo al mondo né che cosa è il mondo né che cosa sono io stesso. Vedo questi impressionanti spazi dell’universo che mi rinchiudono e mi trovo attaccato a un angolo di questa vasta distesa, senza che io sappia perché sono stato collocato in questo luogo piuttosto che in un altro. Né perché questo poco tempo che mi è dato da vivere mi è dato a questo punto piuttosto che a un altro di tutta l’eternità che mi ha preceduto e di tutta quella che mi seguirà. Io non vedo che infiniti da tutte le parti che mi rinchiudono come un atomo e come un’ombra che dura solo un istante senza ritorno. Tutto quel che conosco è che debbo presto morire: ma quel che ignoro di più è proprio questa morte che non saprei evitare.

Blaise Pascal
 

donna:
Ciò che l’uomo ha imparato dall’esempio dei semi, che perdono la loro forma sotto terra per poi rinascere, ha rappresentato la lezione definitiva: la resurrezione, straniero.
Ma ora questa lezione non serve più. Ciò che tu vedi nei cereali, ciò che tu intendi del rinascere dei semi, è per te ormai senza nessun significato. Come un lontano ricordo, che non ti riguarda più. Infatti, non c’è nessun dio.

Pier Paolo Pasolini