Il ponte

"Lo saprei fare anch'io". Riflessioni sull’arte contemporanea

La sera del lontano 19 giugno 1311, l’intera cittadinanza di Siena accompagnò la Maestà di Duccio da Boninsegna in Duomo. Il trasporto e la definitiva collocazione della grandiosa pala d’altare fu avvertito come un evento di importanza capitale da tutti i senesi. E non è che allora non esistessero - fra guerre carestie e pestilenze - argomenti più pressanti all’ordine del giorno.

Oggi, se parlate d’arte contemporanea con persone che non facciano parte di una cerchia ristretta di specialisti e di appassionati (spesso collezionisti assatanati che trattano le opere d’arte come titoli di borsa), vi accorgerete che generalmente l’interesse riservato ad essa è prossimo allo zero. Questa esperienza è condizionata solo parzialmente dal livello culturale dei vostri interlocutori. Infatti anche persone mediamente colte non mostrano che scarso interesse per l’arte contemporanea. Tant’è, due sono le frasi-campione pronunciate da questa vasta popolazione di agnostici dell’arte: “io di queste cose qui non ne capisco niente…”, oppure, “…quella cosa lì” - riferendosi ad un’opera d’arte di oggi – “la saprei fare anch’io”.

Sono frasi apparentemente banali che, tuttavia, illuminano l’opinione corrente più diffusa sull’arte di oggi. L’ammissione di ignoranza è unica nel suo genere. Molto raramente, infatti, tale sincerità sarebbe esibita in altri ambiti del gusto e del sapere. Di converso l’affermare con disprezzo “lo saprei fare anch’io”, nei fatti, banalizza lo statuto stesso dell’opera d’arte, spogliandola di qualsiasi valore. In entrambi i casi: la sostanza non cambia. Ma di chi è la colpa?

Nelle note che seguono vorremmo occuparci delle ragioni che producono questo fenomeno, senza lasciarci impressionare dalle cifre sulle visite ai musei in occasione di grandi mostre o a manifestazioni come la Biennale di Venezia, legate a fattori contingenti e promozionali del tutto particolari. Affermiamo, senza molta preoccupazione di essere smentiti, che la “massa di popolo” che frequenta stabilmente i musei di arte contemporanea di una città come Roma non è superiore a poche migliaia di persone. Mentre i frequentatori abituali di gallerie private stimiamo non superi il migliaio. Perché ciò accade proprio nella capitale di un paese che conserva la maggior parte dei capolavori dell’umanità e che dovrebbe avere nel suo genoma (e anche nelle progettualità delle sue classi dirigenti) una vocazione particolare per l’arte di tutti i tempi e quindi anche per quella contemporanea?

Si potrebbe semplicemente rispondere che questo fenomeno ha a che vedere con la più generale crisi di senso che caratterizza le società postindustriali capitalistiche a più alto tasso di sviluppo tecnologico. Il rapporto inverso fra ipersviluppo tecnologico capitalistico e cultura in senso lato è, infatti, generalmente ammesso. Da un punto di vista di classe, si potrebbe dire: è colpa del capitalismo… e chiudere la questione.

Sarebbe facile. Ma non è così. O meglio non è solo così. La faccenda è molto più complessa. Anche se non vi è dubbio che la progressiva manipolazione mediatica dello stato di coscienza delle masse (non solo della coscienza di classe ma della coscienza sensu strictiori) abbia prodotto danni devastanti. Tutto questo influisce non poco ma, per l’arte contemporanea, c’è qualcosa di più. Di più profondo. Qualcosa che, anche se può apparire terrificante, in qualche misura e in certi casi fornisce un certo fondamento alla frase che recita: “Lo saprei fare anch’io”.

E allora, osserviamo più da vicino questo oggetto misterioso, non senza precisare che attorno ad esso ruotano interessi colossali che in buona sostanza traggono profitto dal mantenere una certa separatezza fra arte e società civile, allo scopo di accreditare per il sistema dell’arte uno speciale statuto di straordinarietà, funzionale alla legittimazione di fenomeni che altrimenti sarebbero considerati pazzeschi. Volete un esempio? Un po’ di tempo fa un artista di poco più di quaranta anni, Damien Hirst, ha venduto ad un’asta prestigiosa un suo lavoro di media importanza quasi alla stessa cifra di un ritratto di Lorenzo De Medici firmato da un certo … Raffaello.

Ma il dato che vorremmo porre in risalto è che lo scorrere dei decenni non fa che confermare la tesi di Benjamin, secondo la quale l’arte, nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, perde la sua aura, cioè il suo fascino. Non vi è dubbio che anche in questo caso, a partire dai primi dagherrotipi dell’ottocento, entra in gioco la concorrenza sleale della tecnica nei confronti del “mestiere” dell’artista. Ma non è ancora tutto. Ciò che ha maggiormente pesato è l’opera di un uomo che più di tutti ha contribuito, con un mix di genialità e violenza iconoclasta, a smontare il giocattolo dell’arte, disperdendone i pezzi.

Parliamo di Marcel Duchamp e cioè di uno straordinario provocatore il quale, nel 1917, ebbe l’ardire di presentare in una galleria prestigiosissima un orinatoio capovolto intitolandolo Fontana e firmandosi con lo pseudonimo di R. Mut. Col tempo quel gesto sarà considerato geniale e liberatorio, consegnando questo artista alla storia dell’arte di tutti i tempi e innalzandolo a livello del più grande pittore di tutti i tempi: Michelangelo Merisi da Caravaggio.

Così come Caravaggio, infatti, aveva segnato con il suo “materialismo estetico” il passaggio dell’arte dall’interesse per “il mondo del dover essere” secondo la religione a quello dell’”essere così come le cose sono”, così Marcel Duchamp siglò il passaggio dall’interesse per la realtà così com’è a quello della realtà vista esclusivamente dal punto di vista dell’artista. Per Duchamp quello che conta è l’idea dell’artista. Nient’altro. Non la manualità, non la tecnica, non i materiali. L’idea: l’idea soltanto.

I ready made di Duchamp aprono la scena di una nuova narrazione, quella dell’arte concettuale. Ora, sebbene sulla scia di questa provocazione siano emersi geni assoluti come Lucio Fontana e Piero Manzoni, tanto per fare due nomi soltanto, è altrettanto vero che il “cattivo esempio” di Marcel Duchamp ha autorizzato una schiera sconfinata di personaggi, i quali prima di lui sarebbero stati obbligati a fare un altro mestiere, a esprimersi, non solo, ma anche ad essere apprezzati. E così è capitato che Wim Delvoye nel 2004 abbia realizzato al Museo Pecci di Prato un “capolavoro” dal titolo Cloaca turbo e cioè una macchina per costruire merda; che l’artista tailandese Rirkrit Tiravanija sia diventato famoso per la sua abilità nel trasformare i musei in cucine e ristoranti; che Martin Creed abbia vinto a Londra il Turner Prize accendendo e spegnendo le luci di una stanza e che Roman Ondak dimostri la sua arte organizzando file di persone che sostano davanti all’ingresso di un museo.

La responsabilità di Marcel Duchamp è quella di aver autorizzato ideologicamente una serie sconfinata di artisti, a loro volta collegati con le lobbies che controllano il sistema dell’arte, a produrre opere la cui assoluta banalità è legittimata dalla più raffinata idea guida che la storia dell’arte abbia mai prodotto: il manufatto non conta niente, quello che conta è l’idea. Il punto è che l’idea per surrogare i materiali e l’aspetto tecnico-esecutivo, per essere autosufficiente, dovrebbe essere grande insuperabile inarrivabile, altrimenti è proprio vero che chiunque potrebbe affermare a ragione: “Lo saprei fare anch'io”.

L’opera di Damien Hirst, a cui abbiamo fatto cenno all’inizio, era nient’altro che un classificatore con una serie di pillole di colore diverso disposte in successione, non esattamente “l’idea del secolo”, non un taglio di Fontana, non un sacco di Burri. Naturalmente, l’aver legittimato simili operazioni ha reso possibile per critici spregiudicati, mercanti e speculatori intrattenere con estrema facilità rapporti con artisti e situazioni funzionali allo sfruttamento del binomio tecnologica-medialismo, per affermare un’idea dell’arte che sia, insieme, di disarmante semplicità e di straordinaria suggestione. L’arte vera con questo non c’entra. C’entrano i finti artisti e gli squali affaristi. A Marcel Duchamp va attribuita la responsabilità obiettiva di aver facilitato il lavoro di questa corte dei miracoli. Ma noi non glielo rimproveriamo. In fondo anche Caravaggio fu un cattivo maestro.

di Roberto Gramiccia
su Liberazione del 12/03/2010
 

 

 



Scritto da Roberto Gramiccia| Articolo postato il 14-03-2010
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