Il ponte

Quel patto faustiano fra nazismo e capitale

Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario. La frase è di Primo Levi, forse tra coloro che meglio d'altri, hanno saputo raccontare cos'è stato Auschwitz dopo aver vissuto sulla propria pelle l'esperienza della deportazione. Il suo libro più noto, Se questo è un uomo, è la miglior prova che il sistema nazista dei campi di sterminio si può raccontare, descrivere, analizzare nei minimi dettagli, ma non spiegare fino in fondo. La logica viene meno. Non c'è una causa cui si possa ricondurre un effetto così abissale come fu la pianificazione della morte su scala industriale per milioni di individui.

Ebrei, comunisti, zingari, omosessuali, testimoni di Geova, prigionieri di guerra, detenuti politici e, ancora, civili e militari deportati dai territori dell'Unione Sovietica: un campionario di "razze inferiori" da annientare e sterminare lungo il cammino che avrebbe portato la Volksgemeinschaft, la comunità di popolo ariana, al comando del mondo intero. Molti dei sopravvissuti ai lager non furono in grado di raccontare nei primi anni del dopoguerra l'esperienza della deportazione. Non se la sentirono. Altri, come lo stesso Primo Levi, tormentati dal senso di colpa d'esser usciti vivi da quell'inferno a differenza di altri loro compagni, cedettero all'impulso del suicidio.

Ad Auschwitz tutto era finalizzato allo sterminio. Ogni tappa della deportazione era l'anello di una catena progettata nei minimi dettagli, con ossessione paranoica, dagli orari dei convogli ferroviari al calcolo del tempo medio di sopravvivenza dei prigionieri necessario per "smaltire" la massa dei nuovi detenuti in arrivo. Un sistema razionalizzato nel suo funzionamento interno, eppure avulso da qualsivoglia causa esterna che ne giustificasse la sopravvivenza. Non furono la guerra e le sue necessità a spingere Hitler e i suoi verso la soluzione finale - su questo gli storici hanno ormai fatto chiarezza. Ad Auschwitz non si finiva semplicemente perché ci fosse il bisogno di lavoro schiavile per sostenere l'economia tedesca in una guerra che si rivelò più lunga del previsto. Ad Auschwitz si finiva per quel che si era, per la propria condizione.

Ricordare e raccontare si deve. E' un dovere verso chi è venuto prima di noi e ha avuto in sorte di vivere (e morire) quei tempi. La Giornata della memoria serve a questo, a sessantacinque anni da quel 27 gennaio 1945 quando i soldati sovietici dell'Armata Rossa varcarono i cancelli del campo di Auschwitz.

Tonino Bucci, 27 gennaio 2010
 



Scritto da Tonino Bucci| Articolo postato il 27-01-2010
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